Le sale da concerto ripetono gli stessi programmi e nessuna nuova opera riesce ad affermarsi. Un’analisi di come siamo arrivati a questa stagnazione artistica.
Era il 29 maggio 1913 quando al Théâtre de Champs-Elysées di Parigi, il balletto di Sergei Diaghilev mise in scena per la prima volta la “Sacre du Printemps”, opera fortemente modernista del giovane compositore russo Igor Stravinsky. Fu un evento senza precedenti: già nei primi minuti alcuni spettatori iniziarono a fare rumore e a protestare all’indirizzo dei musicisti e dei ballerini e questi vennero a loro volta insultati da altri spettatori, che invece ritenevano l’opera geniale. Non si hanno tutti i dettagli di quella caotica serata, ma sappiamo che dovette intervenire la polizia e che 40 persone furono arrestate per le risse che ne conseguirono.
Nel 1958, nel pieno della guerra fredda e un anno dopo il lancio di Sputnik, il pianista statunitense Harvey Lavan Cliburn Jr., conosciuto soprattutto con lo pseudonimo “Van Cliburn”, vinse inaspettatamente il concorso pianistico Tchaikovsky a Mosca. Si dice che la giuria dovette chiedere a Khrushchev se potesse dare il premio a un americano. Al suo ritorno ricevette una parata a New York e diventò un importante simbolo per il popolo americano e per le relazioni tra URSS e USA, tanto che fu chiamato a esibirsi alla Casa Bianca prima di un incontro diplomatico tra Reagan e Gorbačëv nel 1987.
Meno di un secolo fa milioni di persone si sintonizzavano ogni settimana per sentire le performance di Toscanini con la NBC Symphony Orchestra; la musica classica era in grado di far gioire e di scandalizzare popoli interi. Oggi, la musica classica occupa intorno all’1% del mercato musicale globale. Sorge quindi spontanea la domanda: cos’è successo negli ultimi 70 anni a questa forma d’arte per farle perdere l’originaria rilevanza e popolarità?
È certamente facile trovare cause esterne al mondo classico, a partire dalla nascita di tanti generi popolari, più adatti ai nuovi mezzi di comunicazione, o al modo in cui l’industria culturale moderna allontana l’individuo dall’arte, in cambio di un’infinità di intrattenimento. Nonostante la grande importanza di questi punti, certamente meritevoli di approfondimenti, penso che sia prima di tutto importante cercare risposte interne, soprattutto perché una percentuale di mercato minore rispetto al passato è solo il problema più evidente, ma è lontano dall’essere l’unico o il maggiore; l’analisi sulla salute di una forma d’arte non si può certo fare sulla base di quanti soldi riesce a generare. È nello scavare tra le stagioni delle orchestre mondiali e le nuove registrazioni pubblicate dalle grandi case discografiche classiche che saltano fuori problemi di portata maggiore: vengono suonati e registrati sempre gli stessi brani, degli stessi compositori, e nella grande maggioranza dei casi in maniera poco originale. La vera morte della musica classica non è economica, destino verso il quale sembra sempre tendere ma mai arrivare, ma artistica, e si verifica quando tutti coloro che attivamente partecipano all’arte, musicisti, direttori e produttori, dimenticano di essere prima di tutto artisti e si accontentano di vendere biglietti con il solito programma.
È quasi impossibile avere dati su tutti i concerti al mondo, ma preso un campione di 18.000 concerti in giro per l’Europa e l’America, i compositori ad apparire più di 100 volte sono solo 33, e i 10 più popolari (Beethoven, Mozart, Bach, Brahms, Schubert, Debussy, Ravel, Tchaikovsky, Shostakovich e Rachmaninov) rappresentano il 26% di tutte le performance, e i 30 più popolari il 50%.
Nonostante questo monopolio possa apparire normale agli occhi di un contemporaneo, per un ascoltatore del 1800 sarebbe sembrato assurdo: l’aspettativa per lo spettatore dell’epoca era quella di incontrare opere per la maggior parte contemporanee, e fu solo con il progredire del XIX secolo che iniziò a prendere piede l’idea della musica come finestra verso il passato. A Lipsia nel 1782 la musica contemporanea componeva il 90% del repertorio, nel 1845 questa percentuale era scesa al 45% e alla fine del secolo a un misero 25%. Questo calo era però abbastanza prevedibile, poiché la musica, più di ogni altra arte, possiede un carattere retrospettivo: il brano musicale esiste solo nel momento in cui è suonato e quindi deve essere costantemente ripetuto per sopravvivere. Sarebbe però un errore dire che questa tendenza sia l’unica causa del declino di interesse per la musica contemporanea: nel 1941, anno di composizione della settima sinfonia di Shostakovich, tutti i più grandi direttori di orchestre americane assillarono l’ambasciata sovietica per avere una copia della partitura e poter dirigere la prima americana (la spuntò Toscanini, maestro nell’estorcere Premières). C’era ancora un grande interesse per la musica del presente.
È importante però chiarire quali fossero le forme che assunse la musica del ‘900. Pochi anni dopo che Stravinsky scandalizzò il pubblico parigino con i ritmi violenti della “Sacre”, a Vienna Arnold Schoenberg iniziò a comporre con il metodo dodecafonico, basato sulla totale uguaglianza di tutti e dodici i suoni della scala cromatica. Il risultato era una musica senza un centro tonale e fortemente dissonante, in totale contrapposizione con ogni forma musicale precedente. Però, nonostante questo modernismo non fu apprezzato dal pubblico, i compositori lo abbracciarono e, dopo il ‘45, la maggior parte della musica che veniva scritta non era accessibile all’ascoltatore medio. Bisogna inoltre ricordare che il mondo aveva appena affrontato la guerra più sanguinosa di sempre e ci fu una tendenza da parte del pubblico a ricercare la purezza delle forme del classicismo e del romanticismo, piuttosto che la confusione e il rumore della modernità. Il pubblico e il musicista viaggiavano ormai su due binari completamente diversi, e nulla esemplifica meglio questa situazione che l’articolo del 1958 dell’americano Milton Babbitt: “Who Cares if You Listen?” (mi sento di dover però specificare che il titolo originale era “The Composer as Specialist”, ma fu cambiato prima della pubblicazione senza che il compositore fosse avvertito).
Inoltre, è di quegli anni l’esplosione dei generi di musica popolari, e, in un’epoca di grandi pubblici e non di mecenati, la musica classica, per sopravvivere, scelse di rimodellare la propria identità, chiudendosi a riccio intorno ai propri capolavori più conosciuti, quasi esclusivamente appartenenti al repertorio classico e romantico. Questa tendenza ha portato la musica classica a vivere in una sorta di limbo tra vita e morte: di sicuro non possiede più la vitalità di un tempo, ma la morte che un tempo potrebbe essere sembrata inevitabile non sembra mai arrivare; da questa situazione di incertezza e stallo sorge un’indeterminatezza e la musica classica, piuttosto che cambiare il modo di operare, tenta di affermare la propria rilevanza ripetendo le scelte che l’hanno condannata a questo stato. La musica classica non vuole più farsi vedere per ciò che è, in tutte le sue sfumature e per la meravigliosa vastità del proprio repertorio, quindi continua a chiudersi sempre più in sé stessa, nascondendo il cuore che batte dell’arte, quello composto da tutti i pezzi che non sono culmine di un cammino, di un periodo storico, o che rappresentano punti focali nella storia della musica, ma che sono semplicemente opere d’arte che meritano di essere suonate e ascoltate. L’industria della musica classica ha fatto terra bruciata attorno a Mozart e Beethoven, ha cancellato dalla memoria le pagine di compositori minori e così facendo, ha anche neutralizzato la potenza dei grandi capolavori, che da questo processo escono fuori cristallizzati, come se esistessero a priori.
Anche solo il nome, “musica classica”, è emblematico di come l’arte voglia farsi vedere: come una reliquia sacra, d’un altra epoca, da apprezzare più per l’aura che la circonda che per il valore estetico. Alex Ross, nel libro “Senti questo”, scrive: “[i compositori] sono stati traditi da accoliti dalle buone intenzioni, che pensano che la musica vada come un bene di lusso, che va a sostituire un prodotto popolare inferiore”. Poco dopo, racconta anche un aneddoto sulle prime del Parsifal, l’ultima opera di Wagner, quando il compositore urlò: “Bravo!” e fu subito zittito dal resto del pubblico, che chiaramente lo prendeva più sul serio di quanto si prendesse da solo.
Una conseguenza di questa tendenza a elevarsi al di sopra degli altri generi musicali, in quanto “musica seria”, è che solo una parte del repertorio sarà degna di essere eseguita, e spesso saranno le opere di durata maggiore: le sinfonie, i concerti, le opere in più movimenti. Le opere più brevi, saranno largamente ignorate, con effetti catastrofici per la salute della musica: il numero medio di opere eseguite ogni concerto adesso è di 3,9, che è considerabilmente più basso delle 8–15 che si tendeva a suonare in un concerto del XIX secolo. Quindi, nonostante già a fine ‘800 fosse alta la venerazione del passato (come già accennato, solo ¼ dei pezzi suonati era contemporaneo) ascoltando un concerto, era probabile imbattersi in almeno un paio di composizioni del proprio tempo. Inoltre, logicamente, c’era molta più varietà tra i compositori che venivano presentati: in soli 11 concerti, nel 1900, all’Accademia nazionale di Santa Cecilia venivano proposti brani di 32 compositori diversi; nella stagione sinfonica attuale (2023/2024) il numero di artisti in programma è paragonabile (39) ma il numero di concerti è più che raddoppiato (27).
Ritengo importante far notare che non solo è diminuito il numero di brani proposti al pubblico, ma anche il modo in cui vengono suonati. La particolarità della musica classica è che, mentre nella pittura o nella scrittura possono essere individuati due “momenti artistici”, ovvero quello in cui l’artista opera e quello in cui il destinatario ne fruisce, nella musica ne esiste un terzo, intermedio, nel quale il musicista sceglie come interpretare lo spartito, che non è assolutamente opera d’arte completa. Wagner credeva che fosse il dovere dell’esecutore quello di rendere suo il brano, che non esistesse un’idee assoluta di come approcciare un’opera e Gustav Mahler, nell’attività di direttore d’orchestra, era solito cambiare l’orchestrazione di sinfonie altrui per esprimere meglio l’idea musicale di fondo. Con l’avvento delle registrazioni però, l’interpretazione venne spesso messa in secondo piano, in cambio di uno stile piuttosto standardizzato, in gran parte costruito sulla maniera di suonare romantica. Spesso, quando artisti come il canadese Glenn Gould o il croato Ivo Pogorelić deviano da questa tradizione, provocano scandali paragonabili alla prima della “Sacre”, ma a differenza di questa tendono ad aver poco seguito e a restare fenomeni isolati piuttosto che momenti di svolta nella storia musicale. Ed è un peccato, in parte perché tutte le opere che vengono suonate fino all’esaurimento, in questa epoca dal repertorio ristretto, beneficerebbero di uno sguardo nuovo, e in parte perché è denigratorio verso i capolavori del passato, supporre che non abbiano la flessibilità e la ricchezza musicale necessarie per sostenere una miriade di interpretazioni. Sembra anche difficile che questa tendenza si interrompa nei prossimi anni dato che, nonostante il numero di musicisti e direttori altamente qualificati sia immenso, i ruoli nelle più importanti orchestre del mondo e di solisti viaggiatori siano monopolizzati da sempre meno artisti, che arrivano a tenere numerosi concerti ogni settimana in giro per il mondo. Il ventottenne Klaus Mӓkelӓ già dirige tre prestigiose orchestre e ne aggiungerà una quarta nel 2027; chiaramente sarà molto difficile per lui sviluppare una voce propria e dare a ogni opera un taglio fresco e personale.
Tutto questo mi porta a parlare della condizione del compositore contemporaneo. La salute dell’arte in un determinato momento storico infatti si basa soprattutto sulla produzione dei compositori del momento, che oggi più che mai sembra scarseggiare nelle sale da concerto. Non ci sono mai stati più compositori di oggi, ma allo stesso tempo, la loro situazione è tutt’altro che invidiabile. Nella storia della musica è sempre stato essenziale per l’artista creare un linguaggio attraverso l’elaborazione delle forme musicali del presente, adesso questo è praticamente impossibile: brani contemporanei sono trattati con pochissimo interesse, e nella stragrande maggioranza dei casi, dopo essere stati suonati una volta vengono messi da parte e mai ripresi. Se a questo si aggiunge l’appiattimento generale di ogni tipo di tendenza musicale folkloristica causato dalla globalizzazione, vediamo come il compositore sia completamente isolato dalla gran parte delle influenze che sono necessarie per dare vita a un’opera d’arte.
Dopo che le tendenze moderniste della seconda metà del XX secolo fallirono a riscuotere il successo del pubblico, nulla, tranne una manciata di brani minimalisti e di colonne sonore sono riuscite ad apparire, ma anche questi non hanno creato alcun tipo di spinta sul resto della musica. Nello zeitgeist risuonano solo le note vuote di Einaudi, e la musica classica passa dall’essere “musica d’arte” a “rumore bianco”, e come esso, svanisce all’orizzonte.
Immagine in copertina: Arnold Böcklin, “L’isola dei morti”, 1883. Olio su tavola, 80×150 cm. Alte Nationalgalerie, Berlino.
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