Comprendere il ruolo della fortuna per superare l’illusione di una società meritocratica, vivendo con più equilibrio ed empatia verso noi stessi e gli altri.
«Chi vince scrive la storia. Gli altri, al massimo, la leggono. Nessuno si ricorderà di chi arriva secondo». Questa è la narrazione dominante nella società sempre più polarizzata del ventunesimo secolo. Un’epoca che corre troppo veloce per concedersi il lusso di riconoscere che, tra il bianco e il nero, esiste anche il grigio con le sue infinite sfumature.
Chi vince viene idolatrato, trasformato in un modello da replicare, incentivato a vendere corsi e manuali che permettono di riprodurre meccanicamente il suo “metodo infallibile” e raggiungere la sua stessa posizione. Chi perde, invece, viene scartato, ridotto a controesempio: le sue scelte e azioni diventano un monito, il copione sbagliato e inconcludente da evitare a ogni costo.
Eppure, come ci ricorda il filosofo danese Søren Kierkegaard, non esiste un copione valido per tutti, né un modello replicabile all’infinito. L’eterno ritorno di Nietzsche, spesso interpretato come una metafora di ciclicità, in questo senso non descrive il mondo reale: la vita non si ripete mai due volte allo stesso modo, e proprio per questo è quasi impossibile comprimerla in formule, corsi o strategie universali. Esistono contingenze fondamentali, spesso sottovalutate e incalcolabili, che incidono profondamente sul corso degli eventi e, conseguentemente, sui tanto valorizzati risultati finali. Contingenze che possiamo riassumere nello scomodo ma cruciale concetto di fortuna.
Parlare di fortuna è un tabù nella nostra cultura, perché mette in discussione la rassicurante idea di una società interamente meritocratica. Riconoscerne il peso significherebbe ammettere che il proprio successo non sia dipeso solo da talento e impegno. Ed è un’ammissione che non molti dei “vincenti” (ossia, secondo la narrazione collettiva, coloro che occupano posizioni di alto status sociale), sono disposti a fare.
Eppure, non è così: la società non è pienamente meritocratica, e tendiamo a interpretare il mondo esclusivamente attraverso il nostro punto di vista, sopravvalutando il peso delle nostre azioni e attribuendo loro la causa unica di ciò che ci accade. Questo meccanismo, noto in psicologia come egocentrismo attributivo, è stato documentato in diversi ambiti. Nel campo scientifico, ad esempio, è stato notato come gli autori di articoli sovrastimino spesso il proprio contributo, tanto che la somma delle percentuali di apporto dichiarate supera praticamente sempre il 100%. Anche nelle dinamiche domestiche è stato poi osservato come all’interno delle coppie, entrambi i partner tendano a percepire di fare molto più della propria parte rispetto all’altro.
«Quasi la metà degli uomini dice di occuparsi della maggior parte dell’educazione domestica dei figli. Solo il 3% delle donne è d’accordo.» — Sondaggio di Morning Consult su oltre 2.000 genitori americani con figli di meno di 12 anni, interrogati su chi li stesse aiutando maggiormente con la didattica a distanza durante il periodo del COVID, 9-10 aprile 2020.
Oltre a sopravvalutare le nostre azioni, tendiamo anche a sottovalutare le fortune fondamentali che influenzano profondamente il nostro percorso e i risultati che otteniamo, pur essendo totalmente al di fuori del nostro controllo. Una di queste è banalmente il luogo di nascita. Nascere ad esempio in Sudan del Sud, dove il PIL pro capite a parità di potere d’acquisto è di circa 920 dollari l’anno, significa avere accesso estremamente limitato, se non nullo, a istruzione, assistenza sanitaria e opportunità professionali. Anche il bambino più talentuoso e determinato, in un contesto simile, difficilmente riuscirà a emergere.
Un altro esempio, meno intuitivo ma altrettanto pertinente, è la data di nascita. Uno studio ormai celebre sui giocatori di hockey nordamericani ha rilevato che circa il 40% degli atleti della principale lega professionistica (la NHL) è nato nei primi quattro mesi dell’anno. Questo non perché i nati da gennaio ad aprile siano magicamente più talentuosi, ma perché nei campionati giovanili pochi mesi di vantaggio nello sviluppo fisico possono fare la differenza: portano a selezioni anticipate, migliori allenatori, più ore di allenamento e di gioco.
Un piccolo vantaggio iniziale, dovuto unicamente alla fortuna di essere nati in certi mesi dell’anno, può dunque generare un effetto cumulativo, creando nel tempo un divario che viene erroneamente scambiato per talento naturale o merito personale.
Esistono moltissimi studi con conclusioni simili che, insieme ai più classici eventi situazionali (come trovarsi nel posto giusto al momento giusto, o sostenere un colloquio cruciale con una persona con cui scatta subito un’intesa naturale anziché con un’altra che magari quel giorno è di cattivo umore), dimostrano come questi fattori casuali possano incidere persino più della preparazione sul raggiungimento di un obiettivo.
Appurata ora l’esistenza di questi eventi esterni determinanti, anche volendogli attribuire un peso minimo di impatto sull’esito finale, diciamo per i più scettici solo il 5%, rispetto al restante 95% assegnato alle abilità, esiste una simulazione statistica emblematica realizzata dal fisico australiano Derek Muller, sul suo canale scientifico Veritasium che dimostra matematicamente quanto quel 5% sia decisivo. L’esperimento riguarda la selezione degli astronauti della NASA, uno dei contesti più competitivi al mondo, dove notoriamente vengono scelti solo i “migliori”. Nel 2017, ad esempio, su oltre 18.300 candidati, soltanto 11 sono stati ammessi al programma di addestramento astronautico.
Partendo dall’ipotesi che il risultato della selezione dipendesse appunto per il 95% da competenze, esperienza e impegno, e solo per il 5% da pura fortuna, Muller ha simulato mille volte il processo di selezione e il suo esito. In ogni simulazione, a ciascun candidato veniva assegnato un punteggio casuale da 1 a 100 per abilità e un punteggio analogo per la fortuna, combinati secondo le proporzioni stabilite. Il risultato è stato che i candidati selezionati avevano in media un punteggio di fortuna pari a 94,7 su 100. Se la selezione fosse avvenuta basandosi esclusivamente sull’abilità, solo 1,6 degli 11 selezionati sarebbero stati effettivamente tra i migliori.
In altre parole: anche ipotizzando che la fortuna incida solo per il 5%, 9 o 10 degli 11 selezionati sarebbero stati diversi se la fortuna non avesse avuto alcun peso. Quando la competizione è alta, essere bravi e lavorare sodo è fondamentale ma non basta. O si è davvero eccezionali (caso rarissimo e quasi trascurabile, in questo caso appunto appena 1,6 persone su 18.300), oppure si è arrivati dove si è anche grazie a fattori esterni e fortunati, perfino nei contesti più rigorosi e meritocratici.
Quindi, qualsiasi selezionato che è risultato in quei 9 “fortunati” non ha necessariamente avuto un “metodo vincente” che lo abbia differenziato in modo sostanziale dagli altri non selezionati. Non è stato così bravo da potersi permettere di vendere un corso per diffondere il suo metodo “infallibile” e vincente rispetto ai controesempi che invece non sarebbero stati abbastanza bravi, eppure lo fa e anzi viene socialmente incentivato.
Estendendo questa riflessione anche ad altri ambiti, professionali e personali, emerge dunque la scomoda verità che quasi nessuno arriva dove si trova solo grazie ai propri meriti. Eppure, una volta raggiunto un certo status, risulta naturale pensare di esserselo meritato. Questa illusione alimenta una visione miope del merito, riducendo l’empatia verso chi, pur impegnandosi, non riesce a emergere, e finisce per giustificare le disuguaglianze come se fossero naturali. È una forma di oblio della fortuna, che porta a percepire il mondo come intrinsecamente giusto, e chi non ha avuto successo come meno capace o volenteroso.
«Non sei mai così bravo come tutti ti dicono quando vinci, e non sei mai così male come ti dicono quando perdi.» ― Lou Holtz, allenatore di football americano, 1998.
Gli eventi non sono una realtà binaria fatta di bianco o nero, successo o fallimento, ma l’espressione di una complessità grigiastra. Da un lato, è bene evitare l’arroganza che spesso è indotta dalla vittoria; dall’altro, è importante non prenderla troppo sul personale quando si perde. Ogni successo lascia spazio per migliorare, ogni caduta può contenere un insegnamento, se siamo disposti ad ascoltarlo.
In queste inevitabili cadute serve uno spirito ottimista nell’essere, anche un po’ ingenuamente, convinti del fatto che gli eventi ci possano portare nel lungo termine a qualcosa di ancora più significativo di ciò che si è perso. Naturalmente, c’è anche un rischio opposto: usare la fortuna come alibi per non impegnarsi. Ma il punto di questo dicorso non è sminuire il valore dell’impegno bensì metterlo nella giusta prospettiva.
«Ogni evento negativo contiene in sé il seme di un beneficio equivalente o maggiore.» ― Napoleon Hill, Pensa e arricchisci te stesso, 1937.
Per ridurre l’esposizione che la fortuna ha sui nostri risultati e massimizzare invece l’impatto dell’impegno, un’idea può essere quella di “non mettere tutte le uova nello stesso paniere”, riprendendo il concetto della diversificazione del portafoglio finanziario, teorizzato dall’economista statunitense Harry Markowitz. Invece di puntare tutte le nostre energie su un’unica attività, un unico sogno, un unico “esito”, ha senso distribuire i propri sforzi su più fronti.
Mettersi in gioco in contesti anche non correlati permette di relativizzare l’importanza delle singole attività ed evitare di alienarsi completamente con esse, facendo anche sì che ogni esperienza possa generare idee che si riflettono positivamente su un’altra. Esporsi e lavorare con impegno su più fronti è un modo per costruirsi attivamente la propria fortuna.
«Credo molto nella fortuna. Più lavoro sodo, più ne ho.» ― Coleman Cox, umorista statunitense, Listen to This, 1922.
In un mondo che ci spinge a identificarci con un unico risultato, imparare a vedere il nostro percorso come una media ponderata delle attività che svolgiamo ci aiuta a vivere con maggiore serenità. Se qualcosa va storto, non ci sentiamo dei falliti solo perché abbiamo investito tutto in quell’unico ambito finendo per identificarci completamente con esso. Al contrario, abbiamo l’opportunità di rialzarci immediatamente, trasformando la delusione in energia e continuiamo a costruire altrove. Così, il fallimento smette di essere un’etichetta e diventa un semplice episodio da integrare in una visione più ampia e dinamica.
Non conta solo ciò che otteniamo, ma come ci comportiamo lungo il percorso, l’atteggiamento con cui affrontiamo le sfide e quello con cui reagiamo quando le cose non vanno come speravamo: la vera vittoria sta nel non mollare mai.
Riconoscere il ruolo della fortuna, tanto nei nostri successi e fallimenti quanto in quelli altrui, ci aiuta a raggiungere un atteggiamento di maggiore serenità, comprendendo meglio le ingiustizie sociali, riducendo l’auto-colpevolizzazione e sviluppando un’empatia più autentica. Accettare che il successo sia influenzato anche da fattori esterni e che non possiamo controllare tutto non ci indebolisce: ci rende più umani, verso gli altri e verso noi stessi.
Immagine in copertina: Caspar David Friedrich, “Viandante sul mare di nebbia”, 1818. Olio su tela, 98,4×74,8 cm. Amburgo, Hamburger Kunsthalle.
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