Un vortice di consumismo e incertezza travolge l’uomo del XXI secolo, che diviene un ingranaggio nel maldestro tentativo di sfuggire al malessere esistenziale.
Pianeta Terra, XXI secolo. L’ombra orwelliana di un futuro distopico si trasforma e realizza in un’epoca in cui il tiranno non è il Grande Fratello ma il Dio Consumo. Tutto è fluido, rapido e precario; un flusso costante di informazioni travolge ciò che è solido sostituendolo con relazioni che diventano monouso e identità che sono plasmate da schermi digitali. L’accidente aristotelico, o l’apparire, diventa un valore che ha più rilevanza della sostanza, l’essere. È in questo futuro ormai realizzato che la lotta hobbesiana per sopravvivere e conquistare diritti nello stato di natura si trasforma in una gara per accaparrarsi la merce.
File chilometriche di esseri umani disposte a scambiare tre ore del loro tempo in coda per un panino di bassa qualità in offerta da una catena di ristorazione rapida. Centinaia di milioni di persone che passano ore a strisciare il pollice su un blocco di plastica e metallo. La grande maggioranza della popolazione, perfettamente informata sull’ultima partita di calcio o sulle nuove uscite della moda internazionale, che non va a votare o non ha la minima idea della situazione socioeconomica che la circonda.
Come profetizzato da Marx prima e Pasolini poi nella sua mutazione antropologica, l’uomo medio si ritrova a occupare il suo tempo libero non più con conoscenza, cultura o con l’essere cittadino attivo nella società. Bensì con l’essere un individuo che consuma, perché è nel consumo che ritrova una soddisfazione immediata quanto effimera. L’uomo medio ridotto a un automa che lavora sotto le dipendenze di grandi multinazionali e realizza sé stesso essendo ingranaggio, divenendo una cosa tra le cose, una mera funzione all’interno della mega-macchina del capitalismo.
In questo contesto, emerge il nuovo assetto del capitalismo postmoderno, il più robusto della storia. Questo capitalismo non trova più il suo fulcro nella solidità unidimensionale alienante del fordismo, che riduceva l’essere umano a semplici movimenti meccanici, ma si basa strutturalmente sulla fluidificazione postmoderna dell’essente. La sua formula segreta è infatti il processo di destabilizzazione di tutto ciò che è colpevolmente stabile. Il mondo della vita tende a riconfigurarsi in forme flessibili e precarie, non solo sul piano contrattuale ma anche per quanto riguarda tutti i fondamenti etici e morali solidi, che vengono portati a uno stato liquido. Il mondo diviene così una superficie levigata senza corpi solidi per lo scorrimento liquido illimitato dei flussi delle finanze e delle merci che devono inondarlo, senza ostacoli.
Questo liquefarsi bulimico del “capitalismo flessibile” trova nella volontà consumistica degli individui il carburante dei suoi motori e diviene così autosufficiente, sostenuto dai suoi stessi ingranaggi e non più da autorità esterne. L’uomo medio passa così dalla lotta per il trascendimento del mondo capitalistico alla lotta per avere salari più alti all’interno dello stesso mondo capitalistico. Quest’ultimo, da centralizzato, diventa così decentralizzato, grazie a un inconsapevole quanto pericoloso consenso comune degli ingranaggi che ne fanno parte, che silenziosamente logora chi non è il capitalista.
Secondo il sociologo Zygmunt Bauman, nel saggio “Modernità liquida”, l’idea stessa di una “società individualizzata” appare ridondante in un contesto in cui la società come entità coesa è sempre più sfumata. Ciò che resta è l’individuo, spesso in conflitto con la parte di cittadino che è rimasta in lui. Stiamo assistendo a un processo di individualizzazione in cui ognuno è abbandonato a sé stesso, mentre le sicurezze e le garanzie fornite dallo stato e dalla politica sembrano svanire costantemente. Questo fenomeno ha permeato la coscienza dell’uomo moderno, portandolo a pensare che l’unico servizio che può rendere la compagnia altrui è un consiglio su come sopravvivere nella propria irrimediabile solitudine e che la vita di ognuno di noi è irta di rischi che vanno affrontati e combattuti da soli.
“Non esiste la società. Esistono gli individui, uomini e donne, e le famiglie.” ― Margaret Thatcher durante un’intervista con la rivista Woman’s Own nel 1987.
Nell’epoca del capitalismo bulimico, ci ritroviamo costantemente alla ricerca di oggetti e persone con cui non siamo tenuti a instaurare alcun tipo di legame profondo o duraturo. Questo meccanismo, definito da Bauman “rapporto puro”, vede l’ottenere soddisfazione come l’unico parametro da considerare quando instauriamo nuovi legami.
Quando compriamo qualcosa in un negozio, questo non ci sta solamente vendendo l’oggetto in sé, ma quasi un tranquillante morale. Il “nuovo arrivato” porta con sé novità: illusori nuovi inizi che ci giustificano per le nostre mancanze passate e ci portano a non dar peso, per inerzia incontrollata, a eventuali azioni future non conformi ai nostri sogni e valori; tanto ci sarà sempre un nuovo inizio, no? Il ragionamento è analogo anche per i luoghi e soprattutto le persone che frequentiamo, pronti a essere immediatamente sostituiti con qualcosa o qualcuno di non necessariamente migliore ma semplicemente più nuovo. La reciprocità perde così il suo valore, portando a uno sgretolamento delle relazioni, in cui è tanto facile entrare quanto uscire, senza alcun obbligo morale o senso di colpa. In una dinamicità simile alle strategie di produzione giapponesi, come il Just-In-Time e la filosofia del Kaizen, emblemi dell’efficienza capitalistica, che prevedono un continuo miglioramento dei processi e una gestione ottimizzata delle scorte, senza possibilità di stoccaggio.
“Cambiano cielo, ma non animo coloro che corrono al di là del mare.” ― Orazio, Epistulae, I secolo a.C.
Il risultato di questo continuo ricambio è che non abbiamo più la voglia di conoscere davvero le persone con cui ci relazioniamo. Al primo fisiologico ostacolo o incomprensione, tendiamo a interrompere la relazione, senza cercare di andare più a fondo. Preferiamo cercare altrove un nuovo “tesoro”, capace di offrirci nuova dopamina illusoriamente rigenerante, creando così relazioni liquide. È come se stessimo facendo surf sulla superficie della vita: scivoliamo senza mai mettere davvero i piedi per terra, senza stabilire radici profonde. Questa mancanza di stabilità ci rende meno interessati a ciò che ci circonda, lasciandoci intrappolati in una continua ricerca di novità, senza mai fermarci per comprendere o apprezzare ciò che già abbiamo.
La labilità di questo meccanismo alimenta una costante insicurezza, un silenzioso ma logorante timore di essere sostituiti: bisogna essere all’altezza per non “perdere il posto”, così sul lavoro come nelle relazioni umane. E come si fa a non far percepire l’ostacolo o l’incomprensione all’altro? A rimanere all’altezza? Conformandosi alle norme dettate dalla società moderna, diventando così, appunto, un ingranaggio della sua mega-macchina. È proprio ciò che il filosofo e saggista libanese-americano Nassim Nicholas Taleb definisce “turistificazione dell’essere umano”, riferendosi al modo in cui le esperienze umane siano sempre più preconfezionate, standardizzate e prive di spontaneità, simili a quelle di un turista che segue un itinerario predefinito.
Siamo così, persino nell’aspetto più spontaneo che dovrebbe caratterizzarci – il relazionarsi con gli altri e la ricerca di animi affini con cui condividere il tempo – intrappolati in un vortice silenzioso che ci detta cosa fare. Questo vortice ci spinge a stare al passo con le novità e a essere sempre pronti a dare il nostro contributo in ogni tipo di relazione. Ci troviamo in una corsa frenetica e fluida, lontana dalla solidità che dovrebbe rappresentare la nostra autenticità nel pensare, agire e connetterci agli altri. Presi dall’urgenza di piacere agli altri, finiamo per dimenticarci di piacere a noi stessi e alle persone a cui veramente teniamo, generando così un sottile ma doloroso malessere esistenziale.
In questa corsa, siamo talmente occupati ad adattarci alla velocità del mondo e ad accogliere costantemente nuovi stimoli, che finiamo per non avere più il tempo di coltivare le relazioni già esistenti. Le amicizie si affievoliscono o scompaiono, diventando sempre più superficiali. Questo fenomeno è particolarmente evidente per chi si sposta per studio o lavoro: anche il poco tempo prezioso trascorso con la famiglia o gli amici di sempre si riduce a un rapido saluto, lasciando che anche quei rapporti diventino spesso superficiali.
“L’animo deconcentrato non recepisce nulla in profondità, ma tutto rigetta come cibo ingozzato” ― Lucio Anneo Seneca, De brevitate vitæ, I secolo d.c, cap. VII.
Jean-Paul Sartre scriveva che l’uomo sta progressivamente perdendo un’identità innata, conferitagli da una semplice appartenenza a una classe di nascita. Si passa dunque dal concetto di identità da “de iure” a quello di identità “de facto”: non si diventa qualcuno per il semplice fatto di essere nati in una determinata condizione, ma ci si afferma come individui attraverso le proprie azioni e conquiste. Condizione giusta da un punto di vista meritocratico, ma che, allo stesso tempo, spinge l’individuo a vedere il “dover diventare ciò che altro è” come uno, se non l’unico, scopo della propria esistenza. Nella narrazione del successo degli ultimi 20 anni, dove denaro e ozio regnano sovrani e raramente viene riconosciuto il giusto valore alla fatica o alla possibilità di essere soddisfatti in infiniti altri modi che non implichino un arricchimento economico o sociale.
Il processo di dover conquistare qualcosa di materiale e tangibile ha profondamente rimodellato la nostra identità individuale, cambiando significativamente – riprendendo Pasolini – la nostra configurazione antropologica. L’uomo è, oggi più che mai, incessantemente alla ricerca di nuovi obiettivi per soddisfare il proprio insaziabile senso di realizzazione, costretto a conformarsi passivamente alle norme di successo della società. Questo ha creato un circolo vizioso in cui il soggetto moderno, come suggerisce Max Weber nella sua teoria della burocrazia, è condannato a muoversi incessantemente, come una macchina. Non a causa del ritardo della gratificazione, ma a causa dell’impossibilità di sentirsi gratificati. Non si può essere Mensch (Uomo) senza essere Übermensch (Superuomo), e la nostra identità può esistere solo in quanto progetto irrealizzato, perché siamo sempre alla ricerca di un punto di arrivo che, per via della nostra nuova configurazione antropologica, non potremo mai raggiungere.
La nota metafora che descrive la vita dell’uomo del XXI secolo come una “corsa del topo” risulta incredibilmente efficace: ci auto-esaltiamo nel seguire peculiarmente una routine predefinita, senza interrogarci su ciò che realmente desideriamo o su dove stiamo andando. Viviamo con il timore di spogliarci della nostra maschera sociale e dalle sicurezze che ne derivano, per capire veramente chi siamo. Anche se decontestualizzata, la celebre frase di Bruce Lee: “Svuota la mente, sii informe. Senza forma, come l’acqua. Se metti l’acqua in un contenitore, questa diventa il contenitore”, può essere vista come il manifesto del nostro tempo. Sempre riprendendo Bauman, un “omogeneizzarsi”, un assorbire passivamente usi e consuetudini di modelli culturali e di condotta prevalenti nel contesto sociale in cui si è nati (de iure) e farli a sé (de facto), con una spaventosa assenza di pensiero critico. L’essere umano, i suoi valori, la sua morale e i suoi sogni, ridotti a un fluido che, invece di rendere la propria vita un’opera d’arte, si limita a riempire il contenitore riservatogli dal capitalismo e il massimo che può fare è sperare di cambiarlo.
Questo meccanismo di appagamento, come la soddisfazione derivante dal consumo e dalle relazioni liquide, è tuttavia illusorio e fugace, incapace di realizzare pienamente l’essere umano. Non ha né il tempo né la profondità necessari per colmare il bisogno esistenziale di significato. Un bisogno che rappresenta l’unica via, per noi esseri mortali e finiti, di toccare, anche per qualche infinitesimo istante, l’infinito.
È proprio questa fugacità che ci porta a non apprezzare le piccole gioie della vita. Si sedimentano in noi sempre meno piccoli ma grandi momenti come le cene con gli amici o i concerti a cui assistiamo. Non riusciamo più a cogliere l’unicità e l’immortalità dell’istante presente. Lo trattiamo come una replica di qualcosa che abbiamo già visto in un video o come un semplice mezzo per raggiungere un altro ipotetico istante presente in cui ci sentiremo magicamente più consapevoli e sicuri, in un’infinita e logorante “corsa del topo”.
“Ognuno brucia la sua vita e soffre per il desiderio del futuro, per il disgusto del presente. Ma chi sfrutta per sé ogni ora [...] non desidera il domani né lo teme. [...] Non c’è dunque motivo di credere che uno sia vissuto a lungo perché ha i capelli bianchi o le rughe: non è vissuto a lungo, ma è stato al mondo a lungo. [...] Non ha navigato molto, ma è stato sballottato molto.” ― Lucio Anneo Seneca, De brevitate vitæ, I secolo d.c, cap. VII.
L’Homo sapiens, la specie artefice delle tre rivoluzioni – cognitiva, agricola e scientifica – che hanno segnato il corso della storia. La specie che ha inventato la scrittura e scoperto l’elettricità, fondato maestose civiltà e innescato gloriose rivoluzioni. La specie da sempre orientata a un telos, uno scopo o miglioramento verso un ipotetico punto di ottimo, o un tangibile stato di compiutezza in cui ogni cosa sarebbe finita sul suo punto di arrivo, si trova ora protagonista di un brusco rallentamento con un'allarmante perdita di consapevolezza del proprio posto nel mondo. Questo lento ma logorante cambio di tendenza è confermato dai primi segnali di involuzione. Dopo oltre centomila anni di progresso, il quoziente intellettivo dell’Homo sapiens è in caduta libera dall’inizio del nuovo millennio, coincidente, guarda caso, con l’avvento delle piattaforme di consumo su Internet.
Non siamo stati colpiti da una devastante contingenza naturale o da una guerra, eventi che, hegelianamente parlando, possono essere visti come impulsi che ci spingono a unirci e a migliorare, portando a un avanzamento nella dialettica storica nella realizzazione dello spirito assoluto. Invece, ci troviamo a fronteggiare un fattore strutturale e artificiale, lento e non scioccante appunto, che non percepiamo come una minaccia, quantomeno non immediata. Questo fenomeno è caratterizzato da una spinta verso la superficialità e l’omologazione, dall’innescamento di un vortice di consumo e incertezza che si fonda sul principio del “consumo ergo sum”. La percezione della nostra identità è ora infatti definita dai vestiti che indossiamo, dalle istituzioni in cui studiamo o lavoriamo e dagli eventi a cui assistiamo, piuttosto che da chi siamo realmente e dalla nostra capacità di pensare, ex cogito ergo sum. Immersi in questo incessante ciclo di consumo, ci allontaniamo dal nostro scopo individuale e ci adattiamo a quello degli altri.
“Voi fate il miele, o api, ma sono altri che lo godono.” ― Virgilio, aneddoto su Batillo, I secolo a.C.
Il paradosso è che il desiderare collettivamente la stessa cosa finisce per allontanare gli individui dalla collettività. Invece di concentrarsi su azioni che potrebbero avere un impatto positivo sia per sé che per gli altri, le persone impiegano il loro tempo a inseguire sogni uniformi e spesso banali. Questo processo porta a escludere tra i parametri che motivano le proprie scelte, l’ipotetico beneficio sociale da esse derivante.
Stabilendo un parallelismo con la metallurgia, è come se la nostra essenza, storicamente abituata a subire scosse improvvise che, una volta superate, hanno portato a un progresso della specie, stesse ora subendo un processo di frattura per fatica. Non si tratta di un impatto violento e immediato, ma di un lento e costante logorio meno evidente e su cui, di conseguenza, non stiamo intervenendo. Non la bomba atomica di Hiroshima, ma la lenta e continua pressione che ha portato all’implosione del Titan nel giugno 2023.
Questa costante esposizione al mondo del consumo, fondato sulla velocità del digitale, con la paradossalmente lenta eliminazione di tutto ciò che è lento, sta minando la nostra conformazione antropologica. È come se la nostra essenza fosse un vaso di ceramica non ancora solidificato. Un impatto improvviso, simile a una calamità naturale, sarebbe paragonabile a un colpo secco di martello che lo distruggerebbe, rendendo evidente la necessità di un intervento per ricostruirlo e migliorarne la stabilità. Al contrario, l’impatto della società liquida è come quello di un martelletto che picchia lentamente sul vaso: non lo rompe ma lo appiattisce progressivamente col suo picchiettio impercettibile, tanto lento da non far emergere l’urgenza di correggere il tiro.
In questo modo, la nostra capacità di spirito critico sta passando da una raffinata anfora greca tridimensionale, a una piatta gomma da masticare bidimensionale, priva di profondità. Questo “martelletto invisibile” scolpisce individui a stampino, modellati per adempiere ai doveri del capitalismo e non avere un autentico spirito critico. Così, persone orientate al “consumo ergo sum”, finiscono per sprecare il loro tempo in fila per un panino di bassa qualità o in attività di accrescimento intellettuale nullo. Intrappolati da quel vortice di un consumismo che è lo scopo delle loro esistenze ma anche ciò che le farà cadere, perché l’essere edificato sull’avere è un essere fragile e insicuro, destinato a crollare.
“sembriamo frutto di attentati dall’aldilà / quasi tutti modificati nel DNA” ― Rancore, S.U.N.S.H.I.N.E., 2015.
Per concludere questa analisi con consigli pratici su come congelare il flusso dell’instabilità liquida e ritrovare un po’ di stabilità solida, ci affidiamo a due Giganti del pensiero: Lucio Anneo Seneca (ancora lui) e Immanuel Kant.
Dal poeta romano riprendiamo le riflessioni del De brevitate vitæ, in cui contrappone coloro che si lamentano della brevità della vita, senza accorgersi di quanto tempo sprechino in distrazioni superficiali, ai saggi. Questi ultimi, al contrario, sanno usare il tempo con consapevolezza e viverlo appieno. I primi sono parte inghiottita dal meccanismo del martelletto invisibile poc’anzi descritto, i secondi sono quelli che, al contrario, riescono a fare un passo indietro, compiendo riflessioni sulla natura del tempo e impiegandolo per cercare la virtù e la saggezza. Coloro che non si lasciano travolgere dalle preoccupazioni mondane, dedicandosi a ciò che ha un valore duraturo, concentrandosi non sull’accidente, ma sulla sostanza.
“Ecco l’impietoso spettacolo dell’alienazione umana, la massa frenetica degli affaccendati, il dramma delle vite consunte dalla brama di ricchezza e di potere; e, di contro, la figura del saggio, che nel dominio razionale di sé sa rendere intenso e fecondo ogni attimo dell’esistere e fa di ogni giorno che passa una vita.” ― Alfonso Traiana, professore emerito di Letteratura Latina presso l’Università di Bologna, commento al De brevitate vitæ di Seneca.
Per avvicinarsi il più possibile alla condizione del saggio, dice Seneca, è necessario “guardarsi dentro, ascoltarsi”, intraprendendo un’autoanalisi che ci permetta di comprendere quanto siamo stati inghiottiti dal vortice del vivere per inerzia e per imposizioni sociali, e quanto invece le nostre azioni quotidiane siano genuine, in linea con i nostri valori e veri obiettivi futuri. Più profonda sarà l’analisi, più chiaramente capiremo cosa fare: chi e cosa aggiungere ed eliminare dalla nostra vita, dove vogliamo davvero arrivare, riconquistando una sorta di autonomia esistenziale.
Per rendere queste conclusioni ancora più pragmatiche, ci ispiriamo al metodo kantiano. Sebbene Kant credesse che la morale fosse autonoma e risiedesse nella ragione di ogni individuo – simile a quanto sosteneva Seneca, secondo cui in fondo ciascuno sa, dentro di sé, cosa è giusto o sbagliato – ha comunque formulato delle massime per guidare i comportamenti. Allo stesso modo, possiamo dunque provare a delineare delle linee guida generali per uscire dal vortice del consumismo superficiale, descritte di seguito.
In generale, insomma, un invito alla ricerca di cose durature, lente. Così come Kant era partito dal concetto del “cielo stellato” per passare dalla Critica della Ragion Pratica alla Critica del Giudizio, ci riallacciamo all’ultima delle quattro massime, per farci dare un grande spunto: scoprire un nuovo umanesimo. Andare alla ricerca di un’irrazionalità che abbracci il razionale, capace di guidarci verso azioni “folli” ma consapevoli, sempre orientati verso il de facto. Le massime appena scritte lasciano, infatti, il tempo che trovano. Possono limitarsi a essere un generale consiglio amichevole per il lettore, ma, appunto, generale, superficiale. Dopo il contenuto di questo articolo, sarebbe incoerente far passare dei consigli generali e superficiali come delle massime assolute da seguire per risolvere quello che è un problema sociale complicatissimo e dalle infinite sfaccettature.
La verità è che la realtà è troppo complessa per essere modellizzata in formule universali, a meno che non si tratti di leggi che ignorino gli attriti del mondo reale e funzionino solo in condizioni totalmente ideali. La vera risposta, infatti, è: dipende. Ognuno di noi ha dentro di sé un caos infinitamente complesso, che consente, a volte, di andare oltre i margini delle righe già tracciate da altri. Il vero invito che si può fare è quello di provare, almeno qualche volta, a ignorare quelle righe, cercando così di avvicinarsi il più possibile alla risposta alla domanda noumenica: ‘Chi sono io?’
Navigare, dunque, non come marinai alla deriva nella tempesta, ma come capitani che, pur partendo dall’apparente piccolezza di sé e della legge morale dentro di loro, possano, nella loro piccola immensità interiore, raggiungere il cielo stellato.
Immagine in copertina: Constantin Guys, “Viaggiatori in una locanda di Dover”, 1850. Penna, pennello, inchiostro marrone e acquerello su carta, 18,3×25,7 cm. Charlottenlund, Ordrupgaard.
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit ut aliquam, purus sit amet luctus venenatis, lectus magna fringilla urna, porttitor rhoncus dolor purus non enim praesent elementum facilisis leo, vel fringilla est ullamcorper eget nulla facilisi etiam dignissim diam quis enim lobortis scelerisque fermentum dui faucibus in ornare quam viverra orci sagittis eu volutpat odio facilisis mauris sit amet massa vitae tortor.
Orci sagittis eu volutpat odio facilisis mauris sit amet massa vitae tortor condimentum lacinia quis vel eros donec ac odio tempor orci dapibus ultrices in iaculis nunc sed augue lacus.
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit ut aliquam, purus sit amet luctus venenatis, lectus magna fringilla urna, porttitor rhoncus dolor purus non enim praesent elementum facilisis leo, vel fringilla est ullamcorper eget nulla facilisi etiam dignissim diam quis enim lobortis scelerisque fermentum dui faucibus in ornare quam viverra orci sagittis eu volutpat odio facilisis mauris sit amet massa vitae tortor condimentum lacinia quis vel eros donec ac odio tempor orci dapibus ultrices.
Dolor sit amet, consectetur adipiscing elit ut aliquam, purus sit amet luctus venenatis, lectus magna fringilla urna, porttitor rhoncus dolor purus non enim praesent elementum facilisis leo, vel fringilla est ullamcorper eget nulla.
“Ut enim ad minim veniam, quis nostrud exercitation ullamco laboris nisi ut aliquip ex ea commodo consequat uis aute irure dolor in reprehenderit in voluptate velit”
Donsectetur adipiscing elit ut aliquam, purus sit amet luctus venenatis, lectus magna fringilla urna, porttitor rhoncus dolor purus non enim praesent elementum facilisis leo, vel fringilla est ullamcorper eget nulla facilisi etiam dignissim diam quis enim lobortis scelerisque fermentum dui faucibus in ornare quam viverra orci sagittis eu volutpat odio facilisis mauris sit amet massa vitae tortor condimentum lacinia quis vel eros donec ac odio tempor orci dapibus ultrices in iaculis nunc sed.