I Preludi di Chopin, frammenti di poesia pianistica

Verso la fine del 1838, Chopin e la sua amante, la scrittrice George Sand, decisero di lasciare Parigi per qualche mese e passare l’estate nell’isola di Maiorca. Il bisogno di questa scelta fu principalmente dettato dal comportamento imprevedibile e violento del drammaturgo Félicien Mallefille, che Sand aveva lasciato per Chopin. Questo pedinava frequentemente i due armato di pistola, arrivando in un’occasione a sparare nella loro direzione e a sfidare Chopin a duello. Parve quindi saggio per la giovane coppia allontanarsi da Parigi per qualche tempo.

Per i due, Maiorca rappresentava la perfetta meta mediterranea, calda e accogliente, in netta contrapposizione al grigio inverno parigino e perciò perfetta per la salute di Chopin, afflitto da un morbo al tempo sconosciuto (oggi si pensa fosse fibrosi cistica). Dopo una sola settimana però fu chiaro che il clima dell’isola non avrebbe aiutato: alloggiando in una residenza estiva senza camino ed esposta alle intemperie, la sua salute andò peggiorando. Fu visitato da tre medici, di cui racconta con cupa ironia: «il primo ha detto che ero già crepato, il secondo che stavo per crepare, il terzo che creperò». Diagnosticato tisico e altamente contagioso, Chopin e Sand furono cacciati dall’abitazione e costretti a cercare riparo in un monastero certosino abbandonato.

Il monastero, che la coppia scelse non certo solo per necessità, sembrava uscito dalle pagine di un romanzo gotico ed era immerso in un paesaggio sublime ed evocativo; per Chopin, forse il compositore più romantico, era il rifugio ideale. I due occuparono tre stanze piccole, ma bene arredate, che affacciavano sul “più poetico dei cimiteri”. Anatole Leikin, musicologo e autore de Il mistero dei Preludi di Chopin, racconta che sdraiandosi sul letto del compositore, il soffitto «dava precisamente la scomoda sensazione di guardare il coperchio di un feretro, da dentro il feretro stesso. Lo scopo apparente di quest’architettura era far sì che il monaco contemplasse quel “memento mori” murario ogni volta che si stendeva a letto». Come le ambientazioni dei romanzi gotici dell’epoca, il monastero appariva di pittoresca bellezza durante il giorno, ma dopo il tramonto assumeva un aspetto terrificante, in cui la natura pareva nascondere ogni genere di pericolo. Sand riflette quest’atmosfera quando scrive: «sfiderei il cervello più calmo e più freddo a mantenersi a lungo in uno stato di perfetta salute stando in questo posto». Chopin, di natura non dotato di un cervello calmo e freddo e gravemente malato, fu frequentemente in preda ad allucinazioni e sogni febbrili, in cui vedeva processioni di monaci e sentiva canti liturgici. In un’occasione, mentre componeva al pianoforte durante una tempesta, si era visto morto, annegato in un lago mentre gelide gocce d’acqua gli cadevano sul petto. Frequentemente, quando Sand e i figli entravano nella sua cella, lo trovavano seduto al pianoforte in uno stato di trance dal quale impiegava sempre qualche secondo a uscire. È da questo periodo di profonda inquietudine e sofferenza che nasce l’op. 28, una collezione di 24 preludi (in tutte le tonalità maggiori e minori), destinati a cambiare per sempre la storia del pianoforte.

Il manoscritto del preludio n. 15, conosciuto col nome apocrifo La goccia d’acqua a causa delle note in ostinato alla mano sinistra. Consiglio di ascoltarlo nella versione di Pollini e Pogorelić, diametralmente opposte ma entrambe meravigliose.

A questo punto viene da domandarsi, come fece André Gide: «Preludi a che cosa?» Il termine preludio oggi indica una composizione in forma libera di breve durata, come nelle collezioni di Scriabin, Rachmaninov, Debussy e innumerevoli altri, ma per l’ascoltatore di metà ‘800 l’espressione aveva un significato completamente diverso. La tradizione concertistica dell’epoca prevedeva infatti che il pianista improvvisasse delle brevi composizioni introduttive a pezzi lunghi o come intermezzo tra i vari movimenti di sonate, in cui introduceva o modulava verso la tonalità d’impianto del brano. Ebbene queste brevi composizioni, inizialmente subordinate ai pezzi principali, erano chiamate, appunto, preludi.

Raccolte di composizioni del genere esistevano già, ma erano ritmicamente e melodicamente banali. Solo nei due libri de Il clavicembalo ben temperato di Bach i preludi hanno una struttura varia e libera, ma restano pezzi d’accompagnamento: un preludio a una fuga. I brani dell’op. 28 sfuggono dallo scopo utilitaristico, troppo complicati e ricchi per essere semplici introduzioni e troppo vari per essere denominati diversamente (non rispettano le strutture di nessun’altra forma). Quando Chopin chiamò questi pezzi Preludi lo fece con grande modestia, ma con la certezza che non sarebbero stati utilizzati come semplici introduzioni (sarebbe assurdo pensare al preludio n. 20 o 24 come introduzioni ad altri brani) bensì sarebbero esistiti come opera indipendente. Sono, di fatto, preludi al nulla.

Interessante su questo aspetto è l’ordine dei Preludi: ogni brano in tonalità minore è nel relativo minore del precedente mentre ogni brano in tonalità maggiore segue il circolo delle quinte. Se eseguiti nell’ordine voluto da Chopin, i Preludi mostrano una stupefacente continuità, in cui ognuno afferma la tonalità del precedente e il preludio in maggiore funge da introduzione a quello nel relativo minore (consiglio l’ascolto dei preludi 19 e 20 suonati da Grigory Sokolov, in cui l’allegro tema del primo si trasforma in una marcia funebre con sconcertante rapidità).

Schumann, che oltre a essere un geniale compositore era un brillante critico musicale, rimase molto colpito dall’op. 28, che descrisse come «schizzi», «rovine», «pezzi strani», «inizi di studi», che esprimono «il febbrile, il repellente». Questa recensione non va presa come critica ai Preludi, piuttosto come individuazione della loro più grande forza: Chopin, maestro delle forme brevi, qui trova la massima realizzazione del suo talento; le idee musicali si susseguono senza lasciar tempo per respirare, esistono come fuggevoli memorie, come «piccoli miracoli di poesia musicale» (cit. David Hurwitz). Vi sono brani di pochi secondi (n. 5 e 14) e altri di vari minuti (n. 15), ma tutti sono accomunati da una presenza istantanea, da una apparente mancanza di forma, atomizzazione dell’essenza di musica.

Thomas Mann nel Dottor Faustus parla del carattere istantaneo della musica, scrivendo che «è insita nell’essenza di quest’arte singolare la capacità di ricominciare ogni istante dall’inizio, dal nulla, di liberarsi di ogni conoscenza acquisita nel suo percorso storico e culturale, da ciò che ha conquistato nel corso dei secoli, riscoprendosi e nascendo nuovamente». La perfezione dei Preludi sta proprio in questo carattere frammentario, in cui ogni spunto, ogni idea musicale è allo stesso tempo autosufficiente e parte essenziale di una composizione molto più grande.

Numerosi musicologi hanno cercato di trovare fili conduttori che unissero tutti i Preludi: Leikin propone che il celebre motivo del Dies Irae, anche trasposto e invertito, sia il motivo unificatore (è certamente presente in vari preludi, per esempio nei n. 2 e 4), mentre Boelcke parla di moto verso il quinto e il sesto grado. Trovo ogni analisi di questo genere insoddisfacente. Ciò che Chopin riesce a fare nei Preludi è creare una grande forma senza rispettare le richieste strutturali che questa di norma implicherebbe. Piuttosto, come gli Ultimi quartetti per archi di Beethoven, l’op. 28 è un’opera intransigentemente frammentaria, che narra di una “totalità perduta”. Il genio belcantistico di Chopin è liberato da necessità formali per costruire un’opera di lunghezza considerevole, retta dalla straordinaria bellezza di ogni suo istante.

Immagine in copertina: Eugène Delacroix, Ritratto di Frédéric Chopin, 1838. Olio su tela, 46×38 cm. Parigi, Museo del Louvre.

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